Il ruolo dei genitori: come comportarsi con il nuovo arrivato?

Affinché i processi di crescita dell’individuo possano attuarsi secondo il fisiologico sviluppo emozionale, è necessario che i genitori costituiscano per il nuovo nato un ambiente facilitante, in modo tale da rendere possibile l’adattamento, la maturazione e l’integrazione del piccolo in relazione ai suoi bisogni.

Identificarsi con il bambino risulta fondamentale

Nel corso delle settimane e dei mesi successivi alla nascita, è indispensabile che il papà e la mamma siano capaci di immedesimarsi con il loro bimbo, così da poter soddisfare le sue crescenti necessità.

Per crescere, «un individuo ha bisogno di fare esperienza della differenza, ossia di essere in grado di mettersi in rapporto, confrontarsi e imparare dall’altro, la non omologabilità delle funzioni del maschile e del femminile appare decisiva».

È necessaria la «compresenza di un“codice affettivo materno”,improntato alla cura, alla protezione e all’accoglienza incondizionata e di un “codice etico paterno”, espresso dalla responsabilità, dalla norma, dalla spinta emancipativa», fondamentali «per garantire un’equilibrata evoluzione dell’identità personale» «le differenze di genere e di generazione sono inscritte nella procreazione e sono metafora della vita psichica».

Solo allora ci si rende conto che «il figlio è sempre generato da due, e da due “diversi”, da un maschile e da un femminile, da due stirpi familiari, da due storie intergenerazionali e sociali.

La differenza (di genere, di stirpe, di storia) non solo consente la procreazione, ma permette anche che nel tempo il figlio diventi a propria volta generativo da più punti di vista».

Senza un’origine non c’è identità e l’origine«non può che riguardare sia una madre sia un padre».

La donna mette al mondo, ma non genera da sola: «perché il processo della nascita sia compiuto occorre spostarsi da un piano puramente biologico a uno simbolico-sociale che il riconoscimento paterno e l’assegnazione del “nome del padre” consente di introdurre».

Appare invece sempre più evidente che l’interazione triadica madre-padre-bambino è un’esperienza primaria ed è presente già nei primi mesi di vita.

Nei primi mesi di vita l’interazione diadica madre-bambino è caratterizzata da sincronia e coordinazione sociale. Tali caratteristiche rendono armoniosi gli scambi precoci tra il lattante e il genitore, tant’è che gli studiosi chiamano questa forma di comunicazione intersoggettività primaria (Trevarthen) o sintonizzazione affettiva (Daniel Stern). Si tratta di una comunicazione fondamentalmente affettiva o espressiva: la comunicazione ha per oggetto la diade stessa piuttosto che un oggetto o un argomento ad essa esterno.

Ciò che questa visione classica trascura è la possibilità che il lattante sia in grado di interagire precocemente con due persone e non soltanto con una. È invece ipotizzabile che nell’essere umano sia presente un’innata propensione ad interagire con due o più persone.

Questa competenza triangolare sarebbe parte integrante della motivazione sociale di base, piuttosto che costruita a partire dalla coordinazione triadica bambino-oggetto-persona. Le prove a favore di quest’ipotesi vanno rintracciate in tutti quegli episodi in cui il bambino di 3-4 mesi percepisce la relazione genitoriale e mostra una precoce abilità di regolazione con la diade genitoriale.

A questo punto bisogna anche precisare che un eventuale conflitto coniugale rischia di trasferirsi sulla relazione triadica. Diventa quindi importante analizzare le alleanze familiari, sia quelle funzionali, sia quelle problematiche, in quanto implicano diversi tipi di regolazione all’interno della triade.

Interazione madre-padre-figlio

Il gruppo di ricerca dell’Università di Losanna coordinato da Elizabeth Fivaz-Depeursinge ha ideato una procedura sperimentale per registrare e analizzare le interazioni triadiche precoci.

Da queste sono emerse tre episodi di interazione triadica.

1) Condividere il piacere del gioco (madre-bambino più padre)

Il bambino sta giocando con la madre. Entrambe a turno tamburellano sulla sedia. Il bambino guarda e vocalizza di piacere in direzione della madre. La madre ride.  Poi il bimbo si volge verso il padre e vocalizza di nuovo. Il padre, consapevole di non essere coinvolto attivamente nel gioco, non risponde. Il bambino appare sorpreso e continua a rivolgersi al padre. Il padre, dopo aver tentato senza successo di non coinvolgersi, guarda e sorride al bambino. Il bambino, soddisfatto, riprende a giocare nuovamente con la madre.

2) Segnalare la rabbia (madre-padre-bambino)

Il bambino appare frustrato dall’interazione con la madre e le si rivolge con un segnale di rabbia. Poi si rivolge al padre con lo stesso segnale, probabilmente sperando di essere aiutato da lui. Il padre si stringe nelle spalle con un sorriso, mostrando empatia ma scarsa volontà di interferire con ciò che sta facendo la madre. Il bambino si rende conto che deve negoziare la propria rabbia direttamente con la madre. (In quest’episodio il padre avrebbe potuto interferire con la madre o, al contrario, ignorare il segnale del bambino e addirittura biasimarlo).

3) Disconferma e biasimo  (padre-bambino più madre → madre-padre-bambino)

Tutti i bambini osservati nel gioco triadico hanno manifestato indicatori di coordinazione dell’attenzione e dell’affetto con entrambi i genitori in almeno una delle quattro configurazioni triadiche. In particolare, essi alternavano i momenti di contato visivo tra i genitori in modo più o meno equo, spostavano lo sguardo da un genitore all’altro rapidamente, così da indicare una coordinazione triangolare dell’attenzione, trasferivano segnali espressivi (sorriso, disagio, perplessità) da un genitore all’altro. Una coordinazione triangolare dell’affetto, questa, che prefigura le strategie triangolari presenti a nove mesi.

Possiamo qualificare queste strategie triangolari precoci come dirette, in quanto si realizzano attraverso l’azione anziché attraverso quei processi referenziali che caratterizzano l’intersoggettività a nove mesi.

L’attesa di un bimbo non è solo un vissuto materno, un rapporto a due tra il bambino e la sua mamma, vissuto in un intreccio di messaggi ormonali e relazionali. La figura del papà è in realtà molto più coinvolta di quello che si pensa e gioca un ruolo davvero importante. Non si parla più, infatti, di diade mamma-bambino, ma di triade mamma-papà-bambino.

Il papà è completamente partecipe all’esperienza della gravidanza e la sua relazione con il bimbo in utero è essenziale per il suo sviluppo psico-fisico-emozionale, e spesso può determinare anche il buon esito del parto.

È stato riscontrato che molti futuri papà, all’inizio della gravidanza, mostrano gli stessi sintomi della loro compagna incinta: nausea, vomito, sonnolenza, fragilità emotiva.
Questo perché nel papà “incinto” si risveglia una componente energetica, contenitiva e protettiva, volta ad esaltare la sua capacità di entrare in empatia con il figlio e la compagna, avviando un vero e proprio processo di “maternalizzazione”, dove le componenti femminili dell’affettività sono molto amplificate.

Questi cambiamenti emotivi sono causati e regolati da un ri-equilibrio ormonale che avviene nell’organismo paterno, esattamente parallelo a quello che succede nel corpo della mamma e che rende l’uomo concentrato sulla creazione del nido familiare.

Il bambino ha bisogno del padre già durante il periodo della gestazione, ha bisogno di sentirlo vicino per ricevere da lui quel nutrimento affettivo, emotivo, relazionale e intellettivo necessario alla sua crescita e alla sua maturazione: il suo apporto non può che essere di natura integrativa e complementare rispetto alla madre (Soldera 2000b). Il padre rappresenta quindi per il bambino l’ambiente non condiviso, dato che può avere con lui una specifica relazione, diversa da quella vissuta dalla madre.

Ad esempio, la voce del padre è molto interessante per il bambino, perché rispetto a quella della madre, che gli arriva sempre dallo stesso punto, gli arriva ogni volta da posizioni differenti. Il padre costituisce la punta più avanzata di ambiente non condiviso e grazie alla sua affinità genetica con il figlio è in grado di entrare, già durante la gravidanza, in un rapporto particolare di empatia, costruendo con lui una relazione intensa e profonda, capace di incidere sulla sua vita e favorire la sua apertura al mondo.

Negli ultimi decenni la figura del padre ha iniziato una radicale trasformazione: dall’estremo autoritarismo si sta cercando di passare all’autorevolezza. In passato i padri “dovevano” essere severi: il gioco e la creatività dei piccoli venivano così sacrificati in nome di una tradizione che negava loro affetto e comprensione, provocando spesso nei bambini un basso concetto di sé che li avrebbe accompagnati per tutta la vita. Negli ultimi tempi, invece, molti uomini hanno abbandonato il ruolo di padre distante e sono in grado di manifestare apertamente ai figli i loro sentimenti.

Allevano, amano, comprendono i loro bambini e si prendono la responsabilità di allevarli insieme alle compagne, senza volerne minare la posizione. Il merito è anche delle mamme, che hanno favorito in loro la consapevolezza che questa non è prerogativa del genere femminile, e che il papà può partecipare alla crescita e alla cura del bambino senza vedere messa in discussione la sua virilità.

La difficoltà dell’uomo nel partecipare totalmente a gravidanza, parto e nascita comunque non è solo una questione socioculturale.

In primo piano c’è il fatto di vivere la gravidanza “da spettatore”: il papà spesso diventa consapevole della sua nuova condizione solo quando il bambino è nato, la percezione emotiva della paternità è infatti legata alla possibilità di avere un’interazione con il proprio bambino.

Un’altra difficoltà per il padre è l’assenza di un modello paterno valido: l’uomo può così credere di dover costruire una relazione padre-figlio che si aggiunga/sostituisca a quella madre-figlio.

Al contrario, solo la triade madre-padre-figlio costituisce il modello familiare che accoglie al meglio i bisogni del bambino.

Ma diventare padre è il compito più impegnativo che un uomo possa svolgere.

Figli si nasce mentre genitori si diventa

Diventare padre significa, in un certo senso, fare posto al figlio, accettando che la coppia cambi, avviando così un percorso di maturazione personale.

Il passaggio a un’interpretazione più positiva del ruolo del padre e a una sua effettiva presenza e cura educativa avrà effetto sull’intera società, perché i figli cresceranno entro legami di affetto e di sicurezza, ma nello stesso tempo consapevoli dell’importanza della libertà e della responsabilità. D’altro canto, se la funzione genitoriale viene svolta in modo equilibrato il figlio si sentirà più sereno e libero di comunicare il suo mondo interno.

Affinché si stabilisca un rapporto tra padre e figlio sono necessarie due condizioni: un atteggiamento favorevole verso la relazione e la possibilità di comunicare.

Un papà entra in relazione con suo figlio se riesce a superare i suoi pregiudizi e comincia a considerarlo una persona, con un atteggiamento di piena accoglienza e accettazione. Dal canto suo, il piccolo riesce a esprimersi solo se riceve quegli stimoli e quell’amore di cui ha bisogno.

La comunicazione tra padre e figlio già in questa fase può essere definita “circolare”, perché inizia da una proposta (che può partire indifferentemente dall’uno o dall’altro), per poi tornare come controproposta.

Il padre può comunicare con il bambino attraverso il suono, il canto o la parola: abbiamo visto infatti che il nascituro riconosce la sua voce. Un interessante studio sul metodo della maternità cantata effettuato in famiglie di cantanti professionisti ha evidenziato che la madre, con voce da soprano, agisce principalmente sullo sviluppo degli arti superiori e della testa del nascituro; la voce da baritono del padre influenza invece la formazione e il consolidamento degli arti inferiori del corpo. In sintesi, i suoni più acuti risuonano in alto e quelli più gravi in basso.

Un’altra modalità di comunicazione che il papà può mettere in atto è quella tattile. Il piccolo infatti reagisce alle pressioni della mano sul pancione modificando la sua posizione. In questo modo padre e figlio iniziano a percepirsi e a dialogare intensamente, scambiandosi emozioni e informazioni molto profonde.

Questo tipo di comunicazione consente ai genitori di sentire precocemente i movimenti del bambino, che intesse da subito un contatto con loro.

Il padre poi può anche riuscire a instaurare una comunicazione di tipo empatico con il figlio, perché può cercarlo nella propria coscienza, per sentirlo e costruire con lui una comunicazione intima e profonda. Deve imparare a capire qual è lo stato emozionale del piccolo, capire se sta bene o male e se ha bisogno della sua presenza.

Essere padre è quindi un ruolo che gli uomini maturano crescendo.

La transizione verso la paternità è un momento di grande svolta nella vita di un uomo. Se l’uomo è disposto ad entrare in questo rapporto con i figli, diventa uno dei cambiamenti più grandi nella sua vita e nel suo sviluppo come persona.

Se la coppia vive una relazione forte, può sfruttare le differenze in modo complementare e rafforzarsi, aumentando le probabilità che sia la madre sia il padre possano diventare dei bravi genitori.

Brotherson, della North Dakota State University, prende in esame ciò che definisce “essere connessi” nel rapporto tra padre e figlio. Questo collegamento implica la costruzione, nel corso del tempo, di un legame che sia più del semplice amore che il genitore può avere per un figlio e che gli dia la percezione di questo amore e di questa accoglienza.
L’essere connessi si esplica nelle varie forme dell’amore verso l’altro e della fiducia e vicinanza che si sviluppa in tale relazione.

Citando diverse fonti scientifiche sulla famiglia, Brotherson spiega che più un figlio si sente “connesso” ai suoi genitori, più è portato a fidarsi anche degli altri e a instaurare rapporti sereni e stabili con i suoi coetanei e con gli adulti.
Ma come si può “essere connessi” ai propri figli? Brotherson raccomanda di giocare insieme ai figli e di aiutarli nel processo educativo. Essere disponibili a dare loro conforto e affetto nei momenti in cui ne hanno bisogno e condividere momenti spirituali pregando insieme.

I padri possono essere una guida

Un altro fattore è quello della disponibilità emotiva dei padri. Essere coinvolti nella vita del proprio figlio e rispondere ai bisogni emotivi è importante per un sano sviluppo dei bambini e degli adolescenti.

Il padre può esplicare la propria influenza morale in diversi modi: dal semplice mantenimento delle promesse fatte al figlio a quello di stabilire dei paletti per rendere chiaro quali comportamenti sono accettabili e quali non lo sono.
In questo senso, ferma restando l’importanza della quantità di tempo che il padre dedica ai figli, è altrettanto essenziale il modo in cui egli risponde alle loro esigenze e al loro comportamento. L’esempio personale che il padre dà ai figli e il suo insegnamento sul modo in cui comportarsi con gli altri sono ulteriori occasioni di educazione. In questo senso, i padri hanno molte possibilità per trasmettere valori ai propri figli e insegnare loro le conseguenze derivanti dalla responsabilità morale.

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